Roberto Sanesi

Publié le par Wout Hoeboer

 

Chi è Wout Hoeboer?


Non so se Wout Hoeboer abbia mai avuto tempo, occupato ad esaminare il locus pluridimensionale di quella sua ingenua poesia (e vita) in cui volteggiano nudi e senza malizia i solidi erranti dell’impossibile possibilità del sogno o le sirene di voce sottilmente geometrica dell’utopia, di esaminare a fondo se stesso, ma certo, come Hugo Ball, nulla gli vieterebbe di dichiarare di non essere disposto a dare il benvenuto al caos. Cosa che egli fa, naturalmente: ma come qualsiasi artista colpito dalle illuminazioni Dada, come qualsiasi poeta consapevole delle strettoie del linguaggio codificato, attraverso la ricerca e l’attuazione della frattura, del varco, del punto di sfaldamento del text, o test, tessuto, testimonianza e verifica di ciò che va componendo (non è contraddittorio) fino dagli "anni trenta" mantenendo intatta la propria pudicizia e la propria autonomia attraverso le più diverse sollecitazioni. Dada, post-dada, surrealismo, costruttivismo, astrazione, cobra, nulla di tutto questo e tutto indifferentemente, ecc.
A n’ouvrir qu’en chambre noire: la luce della definizione esatta gli nuoce. Si cerchi Wout Hoeboer in storie, resoconti, documentazioni, cronache, cataloghi, fotografie sbiadite: c’è e non c’è, si nasconde, si apparta - al massimo lo si intravede di spalle, come se guardasse sempre da un’altra parte, fuori dal margine dell’immagine e fuori dal gruppo: un tipo che passa di lì per caso, e che se ne va portandosi dietro una grande esperienza. Se qualcuno, gettando un’occhiata di lato, si rende conto della sua presenza tende a rivolgergli la parola balbettando accensioni liriche; è sempre difficile acchiappare un pesce per la coda: "è evidente che Wout Hoeboer si forma anche come creatore tramite la proiezione, la riflessione delle proprie opere su se stesso sì tramite tali proiezioni e riflessioni sulle zone delicate della sua coscienza" (Marcel Lecomte). La sua dote fondamentale è la fuga nella libertà, lo svicolamento improvviso dal "dato di fatto", che è una "presa di fatto", per un abbandono di se stesso non al "fatto" ma allo spazio, alla distanza che si pone fra un "fatto" e l’altro, tanto da privilegiare non il raggiungimento, il godimento (che sarebbe estenuazione, conclusione), ma l’attesa, piacere più sottile.
Fuga, svicolamento: spostamento. Alla Phantomas, con e senza riferimenti a Théodore Koenig. In Le point (1939), come in Le voyage do poète (1941) o Le commencement (1958), collages d’oggetti su tavola, corre l’azzardo associativo dadaista e una specie di furia rigorosa della ricomposizione, del ri-ordino che rimanda a nuove dislocazioni, inattese, della forma.
Compreso il trucco cinetico interno, l’idea della circolarità inconclusa. Ma invitato alla mostra "Anti-Dada" di Bruxelles del 1956 prende Lèvres, collage del 1937, lo mette in cornice con la cornice dopo averla dipinta, e lo data in basso a destra 1910, anno di nascita. Rotterdam: bambino, raccoglie i più strani oggetti, souvenirs dei suoi passaggi; 1925: frequenta l’accademia; incontra Ernst, Arp, Dali...; 1930: entra in contatto con Mondrian; si trasferisce a Bruxelles; 1936: conosce Magritte, legge Kandinsky; 1945: dipinge le scene per una commedia rappresentata alle truppe canadesi; 1948: si imbatte in Dotremont, poi in Jorn: c’è e non c’è: tutte le illustrazioni della rivista "Cobra" sono tirate a mano da lui sul suo torchio litografico; recita la parte del cieco nel film di Marcel Marién L’imitation du cinéma...
Incostanza, scarto, spostamento, circolarità: il viaggio del poeta, appunto.
La data 1910 è la proiezione della sua vita, ma non in senso biografico; piuttosto, della sua "filosofia", asistematica come la sua pittura: Je vis, ça me suffit non è solo il titolo di una sua serie di incisioni, è una dichiarazione ultimativa.
Penso che "strategia della discontinuità" (da non confondere con eclettismo) potrebbe essere una ragionevole definizione del processo creativo di Wout Hoeboer, se il termine "strategia" non suonasse troppo razionale. D’altra parte il suo è un linguaggio deviante. L’elemento che si intuisce quale soggetto di ogni incursione di Hoeboer è il ritmo, gioco di relazioni formali, referente "astratto" (fra molte virgolette: la partenza e l’arrivo quasi sempre come punti allusivi a dati naturali, per quanto elaborati, attraverso un meccanismo di frenetica appropriazione e rifiuto, con lucidità visionaria); e per questo, forse, il suo linguaggio non si lascia mai appiattire dal suo stesso codice. Nelle opere più recenti, e mi riferisco più volentieri a quelle che pretendono apertamente una libertà gestuale, l’intervento immediato sebbene non automatico in senso surreale troppo stretto, come tempere, pastelli, perfino incisioni, Hoeboer sembra tendere ad una riconciliazione, o meglio ad una fusione che però mantenga intatta la fisionomia degli elementi interdipendenti: un equilibrio difficile, in cui le contraddizioni (non si trovano mai definizioni sufficienti) convivono: "du nèant qui s’étend au-dessus, de notre tête jusqu’à nos pieds, a l’autre face du globe et qui ne s’achève point" (Koenig). Si riparlerà di lui, quando chi si dichiara attento ai problemi dell’arte avrà smesso di pisciare sulla musica nella convinzione d’aiutarla a crescere e comincerà, davvero ed umilmente, a guardare in faccia le cose.



Roberto Sanesi

(Texte de présentation à l'occasion de l'exposition "PAMAPADADA"  à la galerie Il Salotto, Como, du 27 septembre au 10 octobre 1975)



 


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